Nel concetto di raro si incontra una postilla del tempo che ne giudica la sostanza attraverso la scarsa frequenza di un comportamento. In verità, gli elementi per condividere appieno il significato della rarità sono ulteriormente sviscerabili e passano dal rapporto tra le strutture universali a cui si fa riferimento e le sembianze caratteriali individuali. Nell'arte la lotta è con sé stessi e con la voglia di trovare una propria dimensione, quanto più affine alla propria volontà e al proprio ego, anche in contrasto con le prescrizioni di quelle strutture universali prima accennate come termine di un rapporto: non sono pochi coloro che sviluppano uno status formativo come compromesso dei piaceri richiesti dalla società, trovando per giunta appagamento, ma eccezionale è la situazione di chi si allontana definitivamente dalle convenzioni o da strade già percorse, per rifugiarsi nella sua vera interiorità di pensiero e azione. In questi casi, la valutazione del "raro" non è automatica poiché la ricerca della dimensione ideale ha bisogno di un lavoro difficile, un'attività preziosa di indirizzo, che deve cercare di ottenere soggettività artistica in un mondo esteticamente riconoscibile, oggettivo, in cui far quadrare canali formativi, istinti, emozioni e sublimazioni.
In questa puntata sull'improvvisazione l'intento è dunque di fornire qualche indicazione di rarità, concentrandomi su basso elettrico ed acustico, violoncello e pianoforte.
E' noto che funzioni e livello espressivo del basso hanno ricevuto un accrescimento grazie a Jaco Pastorius. Previsto per fare faville in altri generi musicali, il basso acustico ha vissuto di concomitanze e subordinazioni nel campo dell'improvvisazione, con contrabbassisti che all'uopo diventavano anche bassisti (vedi il caso di Swallow ad esempio), ma si può ragionevolmente affermare che la magia dei bassisti post-Pastorius regalava magnifici sviluppi nel campo armonico e melodico della musica, accettando l'idioma jazz e lasciando da parte una vasta area dell'espressione; usare un basso per improvvisare liberamente, senza strutture ed ordini, sembrò qualcosa che potesse essere circoscritta solo alle esperienze libere dei chitarristi. Nonostante tuonassero i tentativi dei musicisti di basso elettrico di impostare un'era della rivoluzione del modo di suonare lo strumento, ciò che mancava era l'accoglimento totale delle teorie improvvisative di Derek Bailey, cioè quelle che riportavano ad un utilizzo fisico e men che meno armonico o ritmico dello strumento. Da questo punto di vista le personalità che hanno seguito quel percorso apparentemente arido, inviso alla tonalità e completamente impostato ideologicamente, sono da contare sulla punta delle dita. In Italia, musicisti come Roberto Del Piano sono dunque alfieri di una invidiabile rarità strumentale, in cui mancano testimoni/successori concreti.
Dopo il bellissimo La main qui cherche la lumiére (vedi mia recensione qui), Del Piano al basso elettrico si ripresenta con una registrazione pubblicata per Setola di Maiale, un cd in duo con il clarinettista Joao Pedro Viegas che lo ritrae in un'esibizione fatta a Milano al Salotto in Prova nel settembre scorso: Friendship in Milano è una lezione di musica, perchè vi insegna come qualsiasi soluzione musicale estemporanea vada sentita prima dentro di sé, assimilata e concepita in un patchwork che mira a raggiungere la migliore creazione estetica, se per quest'ultima ne ripristinassimo la vera funzione. L'idea è quella di collocarsi probabilmente in una particolare finzione dove ognuno ha la sua parte, una sorta di documentazione sonora del vivere la dimensione musicale, così come è stata vissuta in tanti anni di esperienza. A Viegas gli si attribuisce una parte sgusciante, continue sonorità che sbucano dal suo clarinetto basso (strappi, fluttuazioni, arrampicamenti, frutto di tecniche estese), fuoriuscite che somigliano a sgorghi scomposti di un rubinetto dell'acqua quando la pressione non è regolare, mentre Del Piano si incarica di delineare un percorso che a fronte di alcuni accorgimenti già congegnati (spazi brevissimi dell'instant composition), dà propulsione attraverso passaggi improvvisativi in cui il suo basso disegna linee sbilenche o torbide condensazioni di suoni che sono veri e propri modi di pensare in musica, ossia pongono interrogativi, stimolano urgenze, punteggiature o atteggiamenti di un ipotetico dialogo. Perciò c'è di tutto in Friendship in Milano, dall'orologio ritmico che imperversa nel ricordo degli old times di First conversation ai capitomboli di Short tale about energy, dall'evidenza celatamente teatralizzata che deriva da Lament agli stop and go di Rejoicing, dove ogni nota al basso di Roberto è un macigno, una profonda compenetrazione di ciò che velocemente crea un percorso in musica.
Parimenti interessanti e coraggiosi sono gli esperimenti del veneto Alessandro Fedrigo, che in queste pagine ho menzionato per le modulazioni dell' XY Quartet, ma che in realtà accompagna anche molti progetti altrui. Fedrigo ha sviluppato un pensiero personale sul basso, specie quello di cui è specialista, ossia il fretless; egli ha avuto modo di presentare le sue idee tramite una raccolta solista del 2011 (dal titolo Solitario), che oggi viene doppiata da un secondo episodio (dal titolo Secondo solitario) di ulteriore maturazione. Swallow ha scritto ogni bene sul bassista veneto e non vedo come non si possa indicare il contrario; non appena si ascoltano le prime note di Secondo solitario si capisce di essere entrati in un particolare involucro musicale. Con gran fervore immaginativo il basso di Fedrigo gira intorno agli umori plumbei (essenze) dei racconti di Verne e Murakami, rimette in circolo alcuni pezzi dell'XY Quartet e Hyper+, e fornisce nuovi numeri di pezzi che prevedono soluzioni improvvisative (numero 4 e 5, le prime tre le trovate sul primo Solitario). Nel pensiero di Fedrigo c'è un chiaro bilanciamento tra la naturale struttura timbrica del basso e la sua possibilità di offrire melodie: è un monolito che però non passa dalle parti di Pastorius, vive di propria autonomia, ha un passo direi "letterario", che invita a vivere d'istinto la tensione musicale. Qui non ci sono strappi, è come salire una scala con impegno senza volersi far notare a tutti i costi e questo qualcuno potrebbe interpretarlo come un limite, in quanto probabilmente la ricerca di Fedrigo è suscettibile di arricchimento. Difficile dire che successo potrebbe conseguire una di queste evoluzioni: il finale di Due Lune contiene qualche elemento al riguardo, filtrando la mole timbrica del basso con il corpo percussivo.
Una specialità del vivere la trance improvvisativa ci viene offerta dai singolari esperimenti profusi da Antonio Bertoni. Dopo l'aggressione al contrabbasso conosciuta in un incredibile album per la Leo R (vedi la mia recensione qui), Bertoni sta seguendo un percorso sperimentale che lo ha visto suonare in Cina in un ex capannone industriale con più peripezie sonore: si trattava di costruire suites musicali del tutto speciali che mettessero in moto la risonanza di lunghi oggetti trovati sul posto, trascinati nell'ambiente secondo varie posizioni, oppure di scovarla muovendosi lungo una lunga corda metallica, a mò di sottoinsieme delle installazioni della Fulmann in tema di long string instrument. Quello che ci propone ora, con un Lp a tiratura limitata dal titolo Terre Occidentali, è un lavoro d'improvvisazione elettroacustica, costruito su impulsi sonori di un synth modulare trasmessi ad un violoncello preparato e con differente accordatura; in più il meccanismo di trasmissione si serve di trasduttori di superficie e di oggetti come supporti di destinazione. Bertoni lo chiama sistema non lineare, un processo che gli serve per introdurre un tema più ampio, esteticamente rivolto alla situazione politico-sociale dell'Occidente; l'Lp (300 copie) contiene anche una fessura in cui compaiono 6 diapositive votate al contrasto tra l'oscurità di fondo che le costituisce (un imperante color nero) ed una strana evidenza lucida creata in sede di stampa: si ritraggono pezzi di terra adeguatamente provvisti di crepe, piccoli smottamenti, addensamenti di nero che fanno perdere l'occhio in un predominio strano dell'oscuro; ma c'è anche un significato da trovare oltre, un simbolismo feroce che mette in discussione le certezze create dalla cultura occidentale.
L'inizio di Centopiedi è scioccante, qualcosa che richiama colpi, l'aggressione di un plotone di esecuzione o di una slot-machine in piena funzione; in Tetraktys la trasformazione del violoncello e l'effetto dei trasduttori crea un drone, un sibilo ferroso; Nome Segreto è un cammino di quasi otto minuti, irto di difficoltà, suoni irriconoscibili del violoncello contrastati da preparazioni ed oggetti percussivi che ne modificano la sostanza sonora e che lavorano ad una improbabile sinfonia; uno strano beat sintetico segue la ricerca fatta in Cuore preparato, un vero e proprio controcircuito, mentre una sottile enigmaticità coglie i sibili delle frequenze di I resti, ottenimento di un supersuono utile per rappresentare modificazioni dinamiche di un apparecchio mandato in orbita.
Bertoni ha una creatività sfavillante e Terre Occidentali è una delle dimostrazioni più valide e temerarie che siano state pensate sul futuro del violoncello in ambito elettroacustico.
Del pianista Jack D'Amico potete avere riscontri in questo sito grazie a due mie recensioni (vedi qui e qui); la rarità del napoletano, oramai da tempo nel giro degli improvvisatori romani, si nutre di fattori tecnici ed espressivi, che tendono a prendere/insinuare una posizione estetica nell'universo fornito da pianisti, musicisti e compositori del novecento. Non si tratta solo di tecniche estensive o di espansioni della capacità sonora, ma di occupare un posto nella gamma complessa dei sentimenti rinvenibili dalla musica. Il pianoforte è strumento che ha già rivelato le sue possibilità armoniche o timbriche, ha un'esposizione secolare in quanto a metodologia di approccio (il suonar dentro gli interni o la percussività delle sue parti esterne) ma D'Amico cerca particolari combinazioni che gli sono care e gli garantiscono una splendida e degna abitazione della sua ricerca; così dicasi per i rhodes, strumenti su cui si pensa di conoscere tutto specie dopo che Miles Davis ha inaugurato un tipo di intervento, ma laconicamente nessuno crede ad ulteriori approcci come quello di D'Amico, che usa una pedaliera che sconfina in una particolare sezione del mistero.
L'improvvisazione di D'Amico fa un figurone nel solismo di Awaiting the great collapse, che a qualcuno lascerebbe intendere una sensibilità post-rock, fin dalla copertina dell'album correlato, pubblicato nel 2016 per la greca Plus Timbre; questo progetto, supportato anche da una validissima sorgente video aggiuntiva, di regola affidata a Simone Memè (vedi qui un'esibizione), è pensato per una continua distrazione del pensiero immaginativo, dove D'Amico accoglie tra i suoi comandamenti quello scelsiano di "...non pensare, lasciare pensare coloro che hanno bisogno di pensare...". Il gioco dell'ottagono si apprezza grazie ad una manovra di compenetrazione che usa benissimo gli scampoli stilistici che il novecento ha partorito, lasciandoli intendere ma mai appropriandosene troppo (l'idioma Satie, l'atonalità della scuola viennese, il modern classical, il jazz di Taylor, il Cage elettroacustico). Oltre al pianoforte, che ha una veste continuamente cangiante per via di preparazioni, risonanze ad hoc e battitura degli interni, D'Amico usa le tecniche dell'hyperpiano di Maroney, smistando occasionalmente la voce in un megafono. Quello che si presenta nei 47 minuti della suite è dunque un conglomerato sonoro assolutamente libero, una marea sensazionale a cui è difficile resistere.
L'improvvisazione può dunque giocarsi su vari livelli e in linea generale si può affermare che quella più recente ha diminuito il carico relazionale per aumentare quello timbrico. Così facendo si garantisce una capacità simulatoria che la relazione fa difficoltà a far emergere. A questo proposito, non posso fare a meno di segnalarvi un pezzo improvvisativo particolarmente riuscito della pianista Silvia Corda con il percussionista Giacomo Salis, dal titolo Surface (sentilo qui). Registrato alla Scuola Civica di Musica di San Sperate, Surface vive di una splendida simbiosi sonora, dove un indovinato sottofondo percussivo fa da cornice a evoluzioni armoniche e concrete del pianoforte. 12 minuti in cui un giro di spazzole su un tamburo fa miracoli ed evoca pioggia o bassa marea, mentre le soluzioni della Corda verificano un affascinante astrattismo.
Una rarità può essere cercata anche nella tipologia d'espressione. A volte bastano poche mosse per creare marchi e l'improvvisazione può essere la vera guida per acquisire la giusta competenza. Nell'universo campionario dei suoni/accordi prodotti dal piano, ve ne saranno alcuni che, nella loro combinazione melodica-armonico-ritmica, non abbiamo mai maturato a sufficienza nell'ascolto. Una verifica di questo principio si può tentare di raggiungere anche nei risultati offerti dalla musica di Stefano Travaglini, musicista innamorato estimatore di Bartok e Mahler, che produce il suo primo cd in solo dal titolo Ellipse. Travaglini è emblematico sull'improvvisazione, che per lui richiede un metodo difficoltoso quanto una registrazione di un pezzo di Chopin o di uno standard del jazz; è un'attività che presuppone l'assorbimento di una quantità di elementi superiore a quella di uno studio specifico delle partiture di un'artista e spazza via le seconde o terze interpretazioni, che sicuramente migliorano i contenuti ma non hanno la spontaneità e genuinità della prima versione. Lavorando con coscienza sulla tastiera si ottengono ancora ottime cose. Pur essendoci idiomi jazzistici e classici nelle impostazioni, Travaglini riesce a garantire fascino grazie ad un loro eclettico spostamento e un suo tratto distintivo sta nella particolare dinamica usata nelle costruzioni scalari discendenti (ben evidenti in The importance of fishing o The flowering season); in ogni caso, la sensazione è che il compito di Travaglini si fondi su una revisione armonica in cui i canali classici sono importanti fonti di ispirazione, ma sia quando si tratta di inerpicarsi in cambi continui di intonazione (le vertigini della verticalità di Intermezzo) che di smussare le angolature della musica (arricchire e sgombrare la presenza del campione in Monk's mood presence), si vuole fornire un percorso e dare un posto personale alle armonizzazioni jazzistiche. Per la maturità mostrata in Ellipse e in relazione alla sensibilità che offre musicalmente, Travaglini meriterebbe già di essere affiancato a quei pianisti dal fervore creativo, orientati a costruzioni rientranti nelle orbite delle tipologie Ecm sound, come nei casi di Battaglia o Guidi.