Gary Alan Fine, professore di sociologia alla Northwestern University di Chicago, è uno di quegli studiosi che si è preoccupato di sollevare significati nel mondo delle cosiddette culture povere o anche definite dell'arte dell'auto apprendimento. Tra le molte figure segnalate nel suo libro Everyday genius: Self-taught art and the culture of authenticity, quella di Lonnie Holley affascina per storia di vita, articolazione del talento e creazione di una realtà artistica: Holley ha avuto una vita travagliata, spesso sull'orlo del collasso, ma ha avuto la sapienza di risollevarsi sempre e trovare nell'arte l'anima giusta per prendersi le sue rivincite. Con i suoi dipinti surreali, la sua musica fuori da schemi prestabiliti e soprattutto le sue sculture totalmente immerse nel vernacolare afro-americano, Holley è diventato un "master artist", convocato alla Casa Bianca e persino affiancato a mostri sacri come Calder, Tinguely o Man Ray. Holley ha usato un metodo molto semplice per le sue sculture, ossia elevare a potenza ciò che l'uomo scarta, fa diventare spazzatura, e con molta sagacia ci ha costruito un tema, una metafora che sostiene le sue opere (al riguardo sul suo sito troverete un video molto esplicativo del suo sistema di raccolta materiali). Quanto alla musica, Holley dice di voler replicare quanto profuso nella sua arte pittorica e scultorea e il suo terzo lavoro, pubblicato qualche mese fa, dal titolo Mith, ha tutte le caratteristiche giuste per fare quel salto di qualità che è mancato nella musica, poiché Holley sta maturando uno stile personalissimo. Ho letto parecchie recensioni di Mith, in cui si fa accenno ad un afflato soul che personalmente trovo solo incidentale: certo, si possono fare determinati paragoni con gente come Gil Scott Heron o Marvin Gaye, ma fondalmente Holley è un improvvisatore, un uomo che usa la vocalità non per mostrarla in primo piano come veicolo del bel canto, ma per comunicare la preoccupazione e il terrore dei tempi. Quella di Holley è musica che naviga tra sospettati e ballerini surreali, che riconosce l'importanza degli elementi naturali (roccia, acqua) e che manda un tremendo messaggio politico. Musicalmente parlando non ha copione fisso, è un prodotto di una voce, di un synth suonato malissimo (ma efficacissimo nel sostenere le trame) e di strumenti a contorno che spesso non hanno un centro di gravità.
Se volessimo comparare il suo sogno con quello di Luther King, dovremmo necessariamente introdurci nel concetto di speranza: mentre è totalmente etereo e quasi religioso l'ottimismo di King, caotico e terrorizzato è quello di Holley. Le parole ed il modo di cantare di I woke up in a fucked-up America sono eloquenti a questo scopo. Ma tra le tante delizie che trovate nel mondo di Holley, c'è ne una che in Mith assume le sembianze di un capolavoro: gli oltre 17 minuti di I snuck off the slave ship mostrano una dolente storia, quella di una schiavitù che si trasferisce solo da una terra all'altra, oltre che indicare un'eccellente evoluzione emotiva.
L'evocazione di un'arte ancestrale, agli antipodi di quanto il presente afferma, raccoglie quell'ulteriore riflessione che tende a deviare i significati delle sculture a prima vista: mettere assieme strumenti musicali distrutti o due seggiole familiari unite da un tronco vergine, sono opere di veggenza che mirano a ripristinare le coscienze perdute e lottano ideologicamente per evitare di consegnare il mondo all'ingiusto.