Ascoltare oggi musica con radici salde nel passato è operazione rischiosa, può condurre ad una sorta di svilimento emotivo: tuttavia un orecchio ben abituato a cogliere le differenze può intercettare una vera novità in ciò che formalmente si potrebbe presentare come un saldo di fine stagione. Questo strano paragone a cui alludo è uno dei metodi migliori per credere al rinnovamento dell'arte. Tra i tanti repechages della musica classica tonale o del jazz è difficile trovare una sensazione che non sia un bubblegum di ex campioni di stile (anche adeguatamente diversificati), perciò quando alle nostre orecchie porgiamo l'ascolto di Joys and solitudes, ultimo cd del pianista francese-israeliano Yonathan Avishai, si percepisce che abbiamo elementi per poter deragliare su di uno scenario differente, quello dell'espressione allettante di un'artista.
Avishai si rapporta in prima approssimazione alla storia della musica attraverso due sentieri: uno che sta tra l'impressionismo di fine ottocento e le armonizzazioni della composizione jazz del primo Novecento e l'altro che guarda dall'alto in basso il pianismo di certe parti geografiche dell'integrazione con il jazz: non è un caso che nelle linee costruttive si spinga dichiaratamente dalle parti del Duke Ellington di Mood Indigo, susciti un legame con la sensibilità classica dei pianisti cubani (Valdes, Rubalcaba, Valle), con un piccolo rivolo di pensiero rivolto a Bill Evans. L'ascolto attento della sua musica libera a livello subliminale una fortissima associazione di pensiero, quello della percezione di un musicista che "cammina" sulla tastiera, non tanto fisicamente quanto sviluppando il proprio intuito creativo con un equilibrio dei tempi e dei timbri perfetti; fatto di tanta semplicità melodica Joys and solitudes è un lavoro di una "discrezione" incredibile, che replica la fine tessitura di un artigiano che lavora la sua tela; ha un contenuto positivista che ha molti più particolari dell'alba di Levante di Monet o della prospettiva comunitaria dei Bagnanti di Cézanne, arrivando fino a quel limite di malleabilità che se invece superato condurrebbe all'inquinamento dei sentimenti. Avishai è vicino alle declinazioni degli artisti latini, che tendono a trasformare qualsiasi tristezza o nostalgia in gioie e non c'è dubbio che in Joys and solitudes non ci sia traccia di apatia o abbattimento (sentite cosa succede in Tango o When things fall apart): la cover del pittore uruguaiano Fidel Sclavo è eloquente nel provare che due colori/sentimenti differenti possono trovare una congiunzione emotiva grazie al collegamento di alcune linee spezzate che attraversano le due aree; nelle parole di Sclavo c'è la chiave di volta del lavoro di Avishai: "...a volte il taglio della carta, con incisioni, segni o perforazioni finisce per generare un alfabeto...più lo stimolo è sottile, più potente sarà la reazione...." (dichiarazione tratta da Abstraction in Action).
Non deve sembrare strano il fatto che la buona musica si nutra anche di questo. Avishai suona nella formula classica del trio con Yoni Zelnik al contrabbasso e Donald Kontomanou alla batteria.