Poche note sull'improvvisazione italiana: pianisti italiani in Nord Europa


Certo, l’andar qua e là peregrinando Ell’è piacevol molto ed util arte; Pur ch’a piè non si vada, ed accattando. Vi s’impara più assai che in su le carte, Non dirò se a stimare o spregiar l’uomo, Ma a conoscer se stesso e gli altri in parte. Eccomi or dunque per le poste correndo a quanto più si poteva. (Alfieri, tratto da Vita, II 1, ed. Einaudi) 

Le parole di Alfieri intercettano il viaggio. E' comune opinione che i viaggi (soprattutto quelli fuori dalla propria nazione) abbiano un carattere formativo. Formare è però un verbo dal contenuto molto esteso, perché il suo intervallo di confidenza può andare da un semplice apprendimento di nozioni fino alla sistemazione delle interiorità dell'animo umano. Nella musica spesso i viaggi si sono trasformati da temporanei a definitivi, nel momento in cui gli artisti hanno trovato comunanza di idee, affetti o luoghi magnifici da abitare. 
In questa puntata dell'improvvisazione italiana, prendendo spunto dallo strumento più versatile che io conosca (il pianoforte), vorrei sottolineare il lavoro di tre bravissimi, giovani pianisti italiani che si trovano o si sono trasferiti nella bella terra del Nord Europa. Non è un'analisi guidata da una simpatia personale verso il mondo nordico (che pur c'è), quanto la sottolineatura che, in posti dove le tendenze culturali sono mediamente più alte, si possono creare stimoli differenziati ed incrementativi per la propria musica. Ho preso in esame i loro ultimi cds, ma francamente ho pensato che un'integrazione con parole provenienti direttamente dagli artisti fosse più esaustiva; è per questo motivo che ho chiesto ai tre musicisti di rispondere a queste due brevi domande:
1) una spiegazione dei benefici di poter operare all'estero e quanto l'ambiente nordico sia utile per la creatività;
2) una breve riflessione su quanto composto recentemente.
Per ognuno dei tre musicisti, quindi, leggerete le mie riflessioni sul loro lavoro dopo le risposte fornite al mio piccolo schema di investigazione. Si ottiene certamente un miglioramento dell'analisi, un più esauriente quadro della situazione.
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Luigi Bozzolan è un pianista che risiede a Gallivare, nella Lapponia svedese; è molto attivo come insegnante e didatta, oltre che come musicista. Conta ormai moltissime collaborazioni importanti sia con improvvisatori italiani che stranieri, nonchè alcuni lavori discografici che lo hanno imposto all'attenzione della critica jazzistica più attenta alle intersezioni con i modelli contemporanei. Il presente è Fàpmu, nuovo lavoro in completa solitudine, disponibile sul sito soundcloud dell'artista.

La risposta di Luigi Bozzolan alle mie due domande:

LB: 1) L’idea di vivere in Scandinava è iniziata ben più lontano dalla Svezia. Sin dai primi passi dell’attività concertistica, ho avuto premura di organizzare quante più date all’estero, in Europa. Un pò spinto dall´indole curiosa, ed un pò perchè ho sempre avuto feedback migliori dal pubblico ed organizzatori all’estero. Dopo alcuni concerti in Europa ed in Africa, nel 2009, é arrivato il lungo tour in duo con Eugenio Colombo durante il quale per un mese e mezzo abbiamo attraversato in lungo e largo tutto il Sud America, suonando la nostra musica quasi ogni sera su un palco diverso. Di quel tour è stato registrato un disco live (“Sud America” Luigi Bozzolan / Eugenio Colombo Duo – Ed. Zone di musica). Ricordo di essere tornato a Roma convinto che era tempo di mettermi in gioco altrove. Avevo frequentato abbastanza i Conservatori italiani ed il mondo del lavoro a Roma come insegnante di pianoforte nelle scuole private per capire che non facevano più per me. 
C’ era qualcosa che decisamente non andava bene. 
La Svezia è arrivata come un colpo di fulmine dopo aver ascoltato un disco dell’Esbjörn Svensson Trio. Senza troppo pianificare sono partito con una valigia ed il piano elettrico per Goteborg. Appena trasferito sono stato ammesso all’Academy of Music and Drama per un biennio in Improvisation; sono entrato dunque in Svezia da studente e nell’arco di circa cinque anni mi sono ritrovato docente di pianoforte in Kulturskola (il corrispondente delle scuole civiche italiane) a Gällivare, cittadina della Lapponia Svedese. 
Dopo tutti questi anni posso dire che l’esperienza di suonare e vivere stabilmente all’ estero sono due concetti completamente diversi. 
Si frequentano i palchi di molti paesi del mondo ed ogni volta, tornando a casa, necessariamente si fanno dei paragoni che quasi sempre vanno a vantaggio del luogo visitato. Ma rimane, appunto, una “visita” con la consueta scia di stupore per “l´estero”. 
Vivere, lavorare ed inserirsi nelle maglie di una società molto diversa da quella italiana, è stato ed è ancora oggi un work in progress tutt’altro che immediato. 
Il Nord Europa e la Svezia godono di una struttura sociale e culturale molto snella e limpida, da ogni punto di vista. Non solo una concentrazione demografica nettamente inferiore; le radici culturali e storiche di questa area sono meno stratificate e complesse di quelle mediterranee. Questo rende più semplice la vita. Anche quella artistica.
In Italia ho la sensazione che si faccia molta confusione. In ambito artistico-musicale, per esempio, c’è la tendenza a condire di concetti in modo ossessivo anche il più semplice progetto artistico dando più peso alle parole che alla sostanza. Come se ci si sforzasse di dare un tono prima di ascoltare. Questo, secondo me, va a discapito dell´artista stesso, limita molto. Avere spirito di ricerca finisce per diventare una cosa avant da ostentare in qualche modo magari appiccicandoci anche un messaggio politico o morale, quando la ricerca dovrebbe essere l’ossatura stessa del lavoro. Ho sempre percepito molta più rilassatezza in ambito progettuale fuori dall’Italia. Tutti più concentrati sulla musica e meno sui concetti. 
Qui nel Nord della Svezia la situazione è ancora più particolare. Essere artisti in questa regione del Norrland significa lavorare a stretto contatto con la natura che diventa alleata preziosa. Significa anche dover viaggiare molto per andare a suonare, uscire di casa e guardare ogni giorno la colonnina del termometro e capire il cielo. A fronte di questa totale immersione nella natura, si gode con dinamismo del sistema-Stato (sanità, scuola e cultura, sport, infrastrutture, istruzione...) grazie ad un’idea politica di collettività ancora vitale in tutta la Svezia, specialmente nei centri medio-piccoli. Di questo ho realmente beneficiato da quando mi sono trasferito.
Non credo però che ci sia un “nord” o un “estero” assoluto che funzioni meglio dell’Italia. Chi della musica ne fa una ragione di vita oltre che professionale, necessita di un ambiente funzionale, qualsiasi esso sia, che risponda al suo modo di lavorare, se possibile senza troppe divagazioni o distrazioni.
D’altra parte la musica si muove nel tempo, e quindi quest’ ultimo diventa irrinunciabile.

LB: 2) La musica raccolta in FÀPMU è frutto di una seduta di registrazione integrale in piano solo. Le tracce contenute nel disco hanno un unico filo conduttore che è la narrazione di qualcosa. Quel “qualcosa” custodito nei brani che io riconosco nota per nota e che mi auguro possa arrivare all’ ascoltatore sotto forma di racconto. Recentemente di FÀPMU è stato detto che il gioco della musica risiede nella tensione fra forze opposte, nella precarietà di un equilibrio che è sempre cercato, ma anche sfidato. Credo sia una descrizione pressoché esatta del mio modo di suonare.

La mia riflessione.

EG: Su Bozzolan feci una breve esposizione critica in occasione di Dola Suite, un cd che il pianista residente a Gallivare pubblicò per Setola di Maiale; lì scrivevo di quanto Bozzolan fosse bravo nell'equilibrio delle fonti, nel disegnare paesaggi sonori, e di quanto mature fossero le protuberanze classiche della sua improvvisazione. Luigi ha conseguito il Master Degree in Improvisation presso l'Academy of Music and Drama di Goteborg e nella sua musica, consolidata all'ombra degli scenari della Lapponia svedese, ha creato un legame anche con gli idiomi della musica scandinava.
Fàpmu è il nuovo piano solo, 11 ritratti sensitivi che confermano quanto pensato: dentro c'è una trama che riprende due secoli di storia musicale in maniera rigenerativa, dove la riorganizzazione improvvisativa mostra ancora una gioventù inaspettata. Se ci fosse la possibilità di mettere un microscopio sulla musica di Bozzolan per poter individuare le fonti originali, saremmo in grado di rivedere tante cose: schegge di pianismo romantico, trafugato come nostalgica protensione di quello nordico (micro-sezioni dei Lyrics pieces di Grieg, dell'Aurora Borealis di Tveitt o dei Concerti di Norgard), una misurazione soggettiva della risonanza, quella cercata dai pianisti sperimentali con clusters completamente funzionali allo scopo (il modello creato da Bozzolan ha una progressione differente da quello di Cowell), e un legato costruito con dosaggi ricercati di armonizzazione jazzistica (Tristano e molto meno Monk); tutti questi elementi fanno pensare a tanto contemporary jazz e ai molti pianisti che hanno provveduto a sviluppare certi legami (si pensi a quanto composto da Jarrett e dai pianisti nordici del jazz), ma nulla può condurci specificatamente ad uno di questi attori; la musica di Bozzolan è così personale che non si accosta a loro, nemmeno se volessimo farla forzatamente combaciare con un ricalco. Fluttua a suo modo.
In Fàpmu c'è un contrasto che va assaporato, quello che Bozzolan ha voluto sinteticamente indicare nel titolo in lingua Sami, che vuol dire sforzo, energia consumata per arrivare ad un obiettivo; la musica è in grado di farcelo capire, passando da momenti di relativa serenità a compulsioni turbolente. L'espediente è quello di guardare in faccia ai suoni estrapolati, a ciò che essi vogliono comunicare; sulla tastiera di un pianoforte ci sono migliaia di modi e combinazioni per manifestarlo, per fortuna, e Bozzolan è tra quei pianisti in grado di sporgerci in una situazione che è visibile nella mente, come vitalità ed apprensione. Questo è il motivo per cui tutto quadra benissimo, incastri che viaggiano sotto un'estetica di una limpidezza proverbiale. 
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Alessandro Sgobbio è un pianista che si è formato tra il Conservatorio di Parma e la Norges Musikkhogskole di Oslo; dal 2010 in poi ha vinto concorsi importanti, figurato nelle top list di molte riviste specializzate per il suo talento e le sue incisioni, tra cui si annoverano quelle in duo con il sassofonista Emiliano Vernizzi come Pericopes, col Charm trio e nell'ensemble di Debra Shaw. Ha già prodotto un cd solista nel 2010 dal titolo Aforismi Protestanti e si appresta a formalizzare discograficamente l'esperienza recente, profusa come Silent Fires Quartet, con tre musicisti norvegesi ed una danzatrice a supporto sul palco. La caratteristica fondamentale di Alessandro è il suo interesse per il tema della spiritualità e le possibilità di impattarla nella musica, attraverso ricerche meditate su materiali sonori appositamente presi in considerazione. Alessandro mi ha fatto partecipe dell'anteprima di Forests, il cd che Sgobbio e il suo quartetto pubblicheranno nel prossimo autunno. Lo ringrazio moltissimo e lo consiglio. 

La risposta di Alessandro Sgobbio alle mie due domande:

AS: 1) Una residenza di medio-lungo termine all’estero permette di immergersi e scoprire nuovi contesti cittadini, sociali, culturali. Operare in città o aree nelle quali la scena musicale è variegata e stimolante, offre indubbiamente una maggiore visibilità sul proprio lavoro, ma allo stesso tempo ti spinge a presentare i risultati del tuo lavoro artistico in un ambiente privo di rete di protezione, dove non puoi appigliarti a una certa memoria affettiva e/o linguistica pregressa. Bisogna costruire o ricostruire il proprio micro-villaggio fatto di luoghi, affetti, collaborazioni, esperienze. Il confronto con una grande città come Parigi, con il suo ritmo, la sua architettura, le mille nuove e variegate sfaccettature delle persone che incrocio quotidianamente, hanno creato una forte cesura psicologica tra la musica che avevo prodotto precedentemente (in Italia) fino a quel momento, e quella che ho poi scritto e eseguito successivamente - differente, sebbene non necessariamente in contrasto con le mie produzioni passate.
All’estero esistono modalità altre di intendere la produzione artistica, il lavoro personale o di gruppo, e la riflessione interiore con la produzione musicale che ci ha preceduto. Vale la pena ricordare come l’insegnamento accademico scandinavo si basi su principi profondamente differenti da quelli a cui siamo abituati in Italia. Nelle istituzioni accademiche scandinave, la tendenza generale è quella di incentivare (o, simmetricamente, lasciare lo spazio necessario perché ciò avvenga) gli studenti nel creare un proprio linguaggio personale, attraverso produzioni e ricerche sonore originali. Le esperienze in terra francese e scandinava mi hanno indubbiamente permesso di accelerare una riflessione a lungo raggio sulla mia produzione musicale, il mio ruolo di artista oggi, offrendomi al contempo l’opportunità di dare vita a nuovi progetti con musicisti d’oltralpe.

AS: 2)  L’idea del nuovo disco di Silent Fires nasce da diverse e variegate mie letture su spiritualità e esoterismo. Il tema della spiritualità è presente, in misure diverse, in tutti i miei dischi, sin dal mio primo album “Aforismi Protestanti”. Per la prima volta, ho composto anche i testi per alcuni dei brani. L’iter creativo ha richiesto due anni di lavoro in seno alla Norges Musikkhøgskole di Oslo - sotto la guida del mio mentore, il compositore e pianista Misha Alperin -, e due residenze artistiche presso la Högskolan för Scene och Musik di Göteborg e il Rhythmic Music Conservatory di Copenhagen. Spero queste miniature sonore possano ispirare chiunque voglia approfondire una ricerca personale di spazi e strumenti utili per la meditazione. Il quartetto comprende tre giovani talenti della scena norvegese: la cantante Karoline Wallace, la trombettista Hilde Marie Holsen e il violinista Håkon Aase. Ci esibiremo presto in Norvegia, Francia, Germania e Italia, in diverse date condivideremo la scena con la danzatrice norvegese Synne Garvik.

La mia riflessione:
Sul quartetto di Forests potremmo produrre una splendida analisi interdisciplinare. Sgobbio continua nella sua ricerca spirituale, che è sussurrante poesia, danza onirica, oltre che musica con un gran senso della musicalità e della raffinatezza; anzi, stavolta, la poesia e la danza sono dentro la musica, parti indispensabili del progetto. La sensazione è che Sgobbio sia poco interessato a difendere complessità o brillantezze come qualità richieste ai pianisti per differenziarsi, in un mondo in cui si punta sempre il dito sulla novità o l'originalità della proposta; a lui interessa creare una "verità", illuminare una strada della conoscenza che è necessariamente di livello metafisico. Da questa motivazione discende che la musica deve interiorizzare questa scoperta e uno dei modi più consoni per farlo è creare un'aurora boreale dei suoni, delle "foreste" simboliche utili per interpretare i significati: è così che il piano suscita sempre un senso dell'infinito tramite l'accordo profondo o l'arpeggio veloce, che una vocalità timbricamente esile come quella della Wallace, è in grado di veicolare la poetica di Yeats, Guénon, Brodskij e di Alessandro stesso, assieme ai passi dei salmi, dei libri ai Corinzi o del vangelo copto egiziano, che tromba e violino siano spezie di un climax che abbiamo imparato ad apprezzare dal Nord Europa, grazie ai protagonismi delle inserzioni solistiche e ad un'elettronica mirata. 
Forests, alla fine, diventa un "soffio" vitale, uno di quei "sogni" assolutamente da sperimentare, un melodico influsso di stupefacenti spirituali senza confini geografici, in cui si può passare dalla contemplazione all'azione (è quanto succede in The light of the lights); nella danza della Garvik (vedi qui) c'è la conferma di una realtà coreografica vissuta nel sogno o quantomeno di una vita sconosciuta che si affronta, movenze elasticamente in cerca di un equilibrio che non è possibile a causa di una nuova situazione mai sperimentata prima.
Sia Guénon che Brodskij ipotizzavano un decadimento della società occidentale e Sgobbio intercetta quello scontro tra autori che vede il ventunesimo secolo o come un modello nichilista o totalmente spirituale, così come posto da André Malraux. Sta di fatto che i "fuochi silenziosi" evidenziati da Sgobbio fanno pensare ad entità cosmiche che si originano dal sole, dalla sua energia, in forme felpate, una straordinaria mimesi provocata dalla musica. Il finale, perciò, non sorprende, perché si ritorna a casa: si riparte alla Volta del Sole.

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Luca Sguera è un pianista uscito dai corsi di Siena Jazz che, per via di un master all'estero, ha affrontato una permanenza temporanea a Copenaghen, in Danimarca. E' un musicista molto intelligente, che tenta di costruire nuove esplorazioni del jazz; Sguera si sta rapidamente affermando negli ambienti dell'improvvisazione: nel 2017 è stato partecipe di una collaborazione tutta norvegese, sotto l'interessante aggregazione free jazz dei musicisti del gruppo The way ahead (che ha poi trovato spazio su un cd per Clean Feed dal titolo Bells, Ghost and other saints), mentre è stato pubblicato da pochi mesi il suo primo cd in veste di leader di un quartetto di bravissimi musicisti italiani (Aka per Auand R.). 

La risposta di Luca alle mie due domande:

LS: 1) Premettendo che ogni ambiente, incontro o accadimento può essere utile per la creatività (specie quando ci porta in un luogo - reale o immaginario - a noi sconosciuto prima) posso rispondere alla domanda facendo riferimento alla mia esperienza dell'ultimo anno: circa un anno fa ho intrapreso infatti un percorso di studi all'estero che si concluderà fra un anno. Si tratta di un master internazionale che mi sta dando la possibilità di studiare e vivere in diverse città europee. Ho vissuto così cinque mesi a Copenaghen (dove ho studiato presso il Rhythmic Music Conservatory) e tre mesi a Berlino (Jazz Institut) e andrò a stare ad Amsterdam da settembre prossimo per qualche mese. Avendo vissuto per un periodo relativamente limitato in queste città non ho avuto modo di integrarmi completamente nelle scene di queste città ma ho avuto diversi contatti con la scena e i musicisti locali.
Copenaghen è una realtà in cui si sente tantissimo - o forse l'ho sentito io da musicista italiano - la disponibilità di fondi per l'arte. Non a caso nei corsi dell'RMC viene data particolare enfasi sul come concepire, sviluppare un progetto e presentarlo in forma scritta, documentandolo in tutte le sue fasi, cosa essenziale per la richiesta di fondi. Questo è senza dubbio uno dei grandi vantaggi di operare in un paese di questo tipo, perchè rende possibili tante cose che senza queste risorse sarebbero difficili da fare. A Copenaghen si respira un'aria di assoluta libertà musicale e ho potuto constatare in prima persona come gli artisti siano particolarmente dediti alla propria ricerca, in modo radicale e quasi sempre libero da schemi generati dalle aspettative e dalle mode.
La cosa che mi ha colpito di più di Berlino è la densità di musicisti e la loro apertura: più di un concerto tutte le sere, grande disponibilità dei musicisti per incontri, collaborazioni e tantissimi input di diversa natura. Tutto questo purtroppo è anche profondamente legato alla precarietà (in termini economici) del lavoro da musicista a Berlino: tanti posti fanno suonare e quasi tutti pagano i musicisti raccogliendo un'offerta dal pubblico presente al concerto.
Ricollegandomi alla tua domanda, sebbene per vari motivi mi senta di mettere Berlino più vicino all'Italia che ad un paese nordico come la Danimarca, penso che anche qui la creatività sia al centro della vita culturale, in un modo del tutto libero da schemi.
Amo l'Italia (di questo ho preso coscienza proprio allontanandomene per un periodo) e non nascondo che quando questa esperienza di due anni sarà finita, mi piacerebbe portare con me in Italia quello che di positivo ho visto e vissuto nelle scene musicali-creative di queste città!

LS: 2) Il disco che abbiamo pubblicato è il risultato dell'incontro e del lavoro fatto con Alessandro, Carmine e Francesco. Ho scritto le composizioni contenute in questo disco dopo aver preso consapevolezza che i percorsi che stavo approfondendo in quel periodo si intrecciavano in modi del tutto inaspettati ed ho voluto che questi pezzi incontrassero nella loro costruzione, ancor prima di essere suonati, il suono e l'attitudine musicale dei miei compagni di avventura. Questi brani si affiancano e si confondono con delle improvvisazioni totalmente libere (vi invito a indovinare quali) creando un flusso musicale che consiglio di consumare tutto d'un fiato, senza interruzioni. Potrei essere più specifico e descrivere nel dettaglio i diversi aspetti di ogni brano, ma mi sta a cuore l'idea che ognuno di noi possa fare suo il "nostro" universo musicale!

La mia riflessione.

EG: Piace l'invito di Sguera a scoprire similitudini nell'improvvisazione. Tuttavia piace ancor di più l'impostazione del musicista e la progettualità. Sotto quest'ultimo aspetto, il suo quartetto conferma come non sia una fantasia il fatto che una parte dell'attuale "nordicità" musicale sia contaminata da polifonie ed elementi di altre tradizioni culturali (uno di quelli che mi viene in mente all'istante è Sten Urheim). E' una specie di osmosi culturale, spesso rilevabile in molti giovani artisti, che ha il merito di costruire idee musicali più solide e universali per qualsiasi genere musicale. Luca, però, non è interessato alla costruzione di un'operazione di assemblaggio più o meno complesso di elementi, ma sembra voler seguire la rotta di un perspicace compositore, che cerca di mettere assieme aspetti compositivi ed improvvisativi in una relazione logica e ben precisa: l'aggancio ad uno dei più complessi linguaggi del mondo, quello dei pigmei dell'Aka, tra la Repubblica Centrafricana e il Congo Settentrionale, è il pretesto per entrare nel mondo delle propensioni ritmiche e degli ordinamenti etnico-musicali. Il quartetto con Sguera al piano, Francesco Panconesi al sax tenore, Alessandro Mazzieri al basso elettrico e Carmine Casciello alla batteria, fa degli Aka un canale trasmissivo delle sue intuizioni. Non c'è dubbio che l'argomento sia molto interessante, soprattutto se rapportato alle invenzioni fattibili sul jazz: l'etnomusicologo Sihma Aron, che ha sistemato la materia della polifonia Aka in molti saggi, ha dimostrato che ognuno di loro sviluppa latenti forme melodiche con caratteristiche ben precise, inserite in schemi ritmici precostituiti. Ma la cosa più interessante in assoluto è che alcune di queste combinazioni polifoniche sembrano avere caratteristiche comuni alle metriche medievali; perciò da lì il passo verso le musiche moderne del Novecento non è lontano da afferrare.
Nato nelle more formative delle lezioni dei corsi jazz di Siena, Aka è un applicativo di teorie che ragionano sulla commistione di forme rigide o libere: se da una parte rilevare ostinati, ripetizioni oscillanti nello spettro della sostanza minimale o quadri melodici di un certo tipo può essere il lavoro destinato ad un compositore, dall'altra la libertà degli interventi e l'imprevedibilità del loro contenuto è quanto si richiede ad un avveduto improvvisatore. Non è un caso che Sguera e il suo quartetto abbiano messo in successione in abiti nuovi l'Andrew Hill di Black Fire o Point of Departure (quello con Henderson e Dolphy), il Morton Feldman di alcune Intermission ed un percorso ridotto delle 840 Vexations di Erik Satie: le istruzioni sono identiche, ossia suonare espressivo, scuro, con grande attenzione alla dinamica dei suoni, ma l'istruzione maggiore è superare i diktat di quei compositori allargando la maglia delle armonizzazioni e delle soluzioni. Sta qui il segreto di un disco di jazz italiano che esce fuori dai binari consueti dell'ovvietà.                
         


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