Denman Maroney: improvvisazione, accrescimenti del piano e pulsazioni multiple

Saranno probabilmente in pochi a ricordare il quartetto di improvvisatori che nel '92, all'Acoustic Music di Brooklyn, registrò Tambastics: in una formazione dedita ad un'improvvisazione ricca di relazioni e di visuale estensiva (con Dresser, Hemingway e Dick), il pianista Denman Maroney affascinava per una personale trasposizione del modo con cui suonare il pianoforte; pensando ad una possibile espansione armonica dello strumento, Maroney fu uno dei primi improvvisatori pianistici che dette nuova linfa alla creatività dello strumento dopo il periodo di oscurantismo subito dall'improvvisazione libera a cavallo degli anni novanta; si cimentò con una pratica ben conosciuta nel mondo classico, quella di poter suonare negli interni del pianoforte in maniera alternativa al tocco sulla tastiera, pratica che era sparutamente applicata nell'improvvisazione, mancando anche un'impostazione specifica ed un'organizzazione del modo di suonare il pianoforte tra la tastiera e gli interni. Maroney spiegò che il suo Hyperpiano era stile misto, con una mano vincolata sui tasti e l'altra intenta a strofinare, pizzicare o colpire le corde con oggetti vari (ciotole, coltelli, campane, pezzi di plastica e di gomma). L'idea era molto interessante dal punto di vista tecnico, perché in tal modo era possibile decuplicare la forza timbrica del pianoforte e soprattutto era possibile improvvisare tenendo assieme l'armonia tradizionalmente ricavata dalla tastiera con una tutta da verificare, pescata nel mondo dei suoni estesi. Denman entrò subito nelle grazie della critica e degli appassionati di jazz, quest'ultima disciplina che il pianista americano si guardava bene dall'abbandonare: se è vero che le trasformazioni dell'hyperpiano erano all'ordine del giorno, era anche vero che il jazz era sempre presente, in una veste parcelizzata ed innovativa. 
Assieme a questa forma di accrescimento c'era anche un altro principio che il pianista rese disponibile molto presto nelle sue perfomances: l'impulso ritmico o, meglio ancora, quanto denominato come pulse fields. Applicabile anche nei rapporti tra musicisti, il pulse field elaborava alcune dimensioni tecniche degli improvvisatori più proiettati nella composizione: negli anni in cui Maroney duetta con Earl Howard in Fire Song (1999, vedi qui un video molto rappresentativo di una loro esibizione nel 2005) o con Mark Dresser (Duologues, Time changes, etc.), si percepisce che l'improvvisazione ha fatto un salto di qualità grazie ad una rinnovata capacità di assecondare complessità strumentali e grafiche, di poter offrire intelligenti e sperimentali stratificazioni sonore figlie della contemporaneità e, nel caso di Maroney, di oggettivare costruzioni ritmiche che, su una temporalità del tutto matematica, può determinare nuove transizioni del jazz e dell'improvvisazione. Fortemente influenzato da Colon Nancarrow, che della materia delle pulsazioni ne aveva fatto il proprio terreno d'azione, Maroney intuisce che in un campo di battute palindromo è possibile creare delle strutture improvvisative antipatiche e nuove, che inevitabilmente costringono il musicista a sviluppare una forza collaborativa in un contesto più difficile da controllare, ma anche piuttosto affascinante dal punto di vista estetico; non sono solo fonti classiche che spingono Maroney a confezionare il suo prodotto, ma anche risultanze del jazz e del pianismo evoluto di Cecil Taylor, che al suo interno prevedeva formule impulsive che potrebbere riconoscersi in quelle di Maroney. Tutti coloro che vogliono approfondire quanto prospettato da Maroney potranno trovare soddisfazione nelle indicazioni della pulse field descritta dall'artista sul suo sito (vedi qui), ma ciò che colpisce a fondo è l'argomentazione di aver trovato le basi di un'armonia cosiddetta temporale. 
Quando nel 2001 si unisce a Rothenberg, Dresser, Norton e Balou, per registrare Fluxations, Maroney applica la pulse field a largo raggio in tutte le sei parti per ottenere varie situazioni: da una parte conciliare le intermediazioni jazzistiche con le saturazioni e gli stridori del materiale interno del pianoforte, dall'altra rendere a sistema quelle complessità ritmiche, che sono incredibilmente legate all'istinto e alla risoluzione matematica. Una bellissima applicazione elettro-acustica della musica di Maroney si può apprezzare nella collaborazione con Hans Tammen, che cattura i suoni del piano e li mischia agli output del suo software interattivo.
Col tempo la musica di Maroney si è indirizzata in maniera crescente verso l'immaginazione sonica determinata dall'uso in chiave percettiva/psicologica delle estensioni, lasciando un pò in sordina l'intelettualismo e le intuizioni prima discusse; tuttavia resta un musicista importantissimo nell'improvvisazione, in grado di tenere banco emotivamente in qualsiasi occasione, una qualità che non manca nemmeno nel suo ultimo lavoro dal titolo Fuse, in trio con splendidi interpreti come Jack Wright e Reuben Redding.


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