Sebbene il jazz avesse coltivato i suoi embrioni nei blues, nel ragtime, nei boogie pianistici o nelle funeral bands, la percezione dell'"organico" in questo tipo di musica si ha quando cominciarono a circolare i primi dischi dell'Original Dixieland Jazz Band. Da quel momento il jazz ha sviluppato moltissime forme di aggregazione tra strumentisti, utilizzando un ventaglio ampio di soluzioni, in cui l'originalità spesso coglieva le impostazioni della musica classica: molti dei più grandi jazzisti internazionali hanno sempre guardato con un occhio di riguardo alle prospettive aperte dalla musica colta; il jazz sinfonico delle orchestre di Ellington, la seduzione delle composizioni di Stan Kenton, il Charlie Parker with strings, le rincorse dei collettivi di Gil Evans, le frange poliritmiche di Charles Mingus, etc. sono tutti esempi di un processo di avvicinamento delle condizioni compositive intercorso tra il jazz e la musica classica.
Lo sviluppo dell'improvvisazione libera, poi, ha proposto ulteriori agganci, che si inquadravano in un contesto sociale rinnovato: in un ambiente che si potrebbe definire di cogestione di interessi, si assistette alla nascita di collettivi che sposavano tecniche strettamente collegate alla pratica contemporanea, in quasi tutti i principali paesi europei, a partire da quelli inglesi ed italiani. Al riguardo, stringendo il raggio del commento a quanto è successo negli ultimi trent'anni in Italia, bisogna ammettere che è partito con molta difficoltà un ricambio generazionale di tutti quei musicisti che avevano sposato le tendenze progressiste (un polo particolarmente importante è stato quello costruito intorno all'Italian Instabile Orchestra), anche perché i musicisti probabilmente sentono un'altra realtà intorno e preferiscono convogliare la loro creatività in soluzioni alternative. Questo per dire che le eredità sono sempre disponibili, basta solo accorgersene di loro.
Quello che propongo in questo articolo è una piccola riflessione su alcune aggregazioni italiane (con 8 partecipanti in su, almeno) fatta sulla base di una serie piuttosto consistente di cds o video-concerti che ho avuto tra le mani in questi ultimi tempi. E' una lega che non ha pretese di completezza, e il formato "classico" che propongo (ensembles, formazioni jazz con archi, orchestre più o meno numerose) è solo propedeutico ad uno sguardo personale e riepilogativo delle tendenze assunte nel nostro paese.
Ho diviso le mie considerazioni in più campi distinti d'analisi:
a) per gli ensembles, l'ottetto di Franco D'Andrea;
b) per le soluzioni trio o quartetto jazz + archi, ho preso in considerazione il Blend Pages di Enrico Zanisi e gli Assassins di Francesco Cusa con il Florence Art Quartet e gli arrangiamenti di Duccio Bertini;
c) una serie di formazioni impostate alla conduction di Butch Morris (Roberto Bonati & Chironomic Orchestra, la Fragile Orchestra di Perciballi, Tobia Bondesan e gli improvvisatori BlueRing, la Tower Jazz Composers Orchestra di Santimone e Bittolo Bon, più alcune conduzioni effettuate al Sud Italia);
d) un paio di organizzazioni ispirate a rivisitazioni importanti di musicisti o musiche sottovalutate dalla storia (Lindsay Cooper attraverso la Artchipel Orchestra di Ferdinando Faraò, e un sottaciuto tributo a Thad Jones e la sua epoca, attraverso l'orchestra la Bud Powell Jazz Orchestra diretta da Gabriele di Franco);
e) l'esperienza aggregativa della Tai No Orchestra, soluzione al momento in stand-by, che qui riprendo con i miei vecchi scritti recensivi.
a) I due volumi di Intervals dell'Octet di Franco D'Andrea presentano un'idea specifica applicata al jazz: superata la definizione tradizionale dell'"intervallo" (quella che prende in considerazione due semitoni), D'Andrea concentra il suo pianismo in ciò che costituisce l'intervallo delle ottave, opportunamente esplorato nelle sue diminuzioni, nei suoi aumenti, negli accordi modali, nei riferimenti a temi specifici del passato della musica. In quella zona musicale dell'ottava è possibile imbastire una mole notevole di manovre, che non si accontentano solo di fornire melodie o assaggi di note con una propria personalità, ma possono dare spazio ad un'intera gamma di soluzioni applicabili all'intero ensemble di musicisti. A differenza di quanto avviene nella musica classica, dove la ricerca dei musicisti e degli strumenti è pensata spessa per trovare colorazioni timbriche specifiche, quella di D'Andrea è in balia dell'idea improvvisativa e di ciò che può essere scovato nell'intervallo; il pianista dà una direttiva di massima, ma ciascun membro dell'ottetto è nella piena facoltà di creare proprie battute. E il risultato è che la ricerca timbrica o ritmica emerge in modo indiretto, grazie alla libertà di sperimentare; e soprattutto la sensazione è quella di trovarsi davanti ad un jazz raffinato, a tratti complesso, capace di tirar fuori citazioni sparse come in una Sinfonia alla Berio; ci sono sprazzi ricorrenti negli Intervals dell'ensemble, a cominciare dalla salsa cubana accennata da D'Andrea (un minimo di ripescaggio anche dal Night and day di Joe Jackson?), dalle squadrature angolari che fanno pensare al jazz di Monk, ma anche ad un minimo di serialità; dai cappotti tematici che l'intero ensemble indossa per rievocare il Charles Mingus di The Black saint and the sinner lady fino a ritrovare pezzi non pienamente a fuoco di Terje Rypdal o Bill Frisell. L'apporto dei musicisti dell'Octet è decisivo per schiarire gli orizzonti: oltre ai fidati Andrea Ayassot (sassofoni), Daniele D'Agaro (clarinetto), Mauro Ottolini (trombone), Aldo Mella (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria), musicisti come Enrico Terragnoli (chitarra elettrica) e Andrea Roccatagliati (all'elettronica) sono migliorie ben pronunciate nell'ambito del suono complessivo; l'elettronica utilizzata nei due Intervals ha un valore e compito uguale a quello di tutto il resto dei musicisti, improvvisazione con una logica di sistema.
E' bene anche dire che in alcuni episodi l'intervallo singolo viene abbandonato per posizionarsi su combinazioni di intervalli: è ciò che ad esempio succede in Air waves, dove il pianismo di D'Andrea si espande su tutta la tastiera. Il secondo volume di Intervals è leggermente più complesso del primo, meno spumeggiante nei risultati, ma nel complesso l'idea che mi sono fatto è che questi piccoli studi sugli intervalli, lavorati in combinazione con gli altri musicisti, non seguono probabili assonanze timbriche, né sono alla ricerca di narrazioni: l'aspetto preponderante ed unico dell'ottetto di D'Andrea sta nella costruzione di un proprio mondo musicale, immediatamente disponibile, che di fronte all'affollamento provocato da stili e rigurgiti della storia, sa stabilire una sua presenza, si ritaglia un suo spazio, grazie alle induzioni derivanti dall'improvvisazione.
b) La raffinatezza melodica è qualcosa che si è cominciata a vedere in maniera netta dalle parti di Haydn molto tempo fa: poi, una lunga scia, corroborata dagli impressionisti e dai classicisti rivisitati. Di questo intrinseco aspetto della formazione ne sono pervasi tutti i musicisti, a cui poi spetta la scelta se lavorare su binari rispettosi del principio. In queste pagine ho rimarcato spesso il valore di un pianista giovanissimo come Enrico Zanisi, che nel suo nuovo cd Blend Pages, si cimenta per la prima volta nelle vesti di compositore da camera. Zanisi si circonda di due super specialisti di clarinetto e percussioni (rispettivamente Gabriele Mirabassi e Michele Rabbia), e di un quartetto d'archi francese (il Quatuor IXI composto da Régis Huby e Clément Janinet al violino, Guillame Roy alla viola e Atsushi Sakai al violoncello), in grado di reggere benissimo anche ad implicazioni contemporanee. Zanisi riapre con sagacia pagine brillanti del jazz, esperimenti che si sintonizzano su una prospettiva mediana in cui l'armonizzazione jazzistica si confonde in quella classica. Pur non essendo sulla linea stilistica di Bill Evans (perché in Zanisi la classicità è una forza superiore all'enfasi improvvisativa), il Blend Pages fa pensare alle esperienze del pianista americano con l'orchestra di Gary McFarland e forse anche quella di Claus Ogerman; ma in quelle operazioni la ricerca del "tema" era decisamente prioritaria, a differenza di quanto ricercato da Zanisi, che vola in una direzione differente da Evans nel catturare pagine ingiallite di vita (Uno), sviluppare luce vitale (Chevaliers) o trovare crepuscoli ed aurore della riflessione (Chiari).
Blend pages è un cammino armonico decisamente rivolto ai modelli stilistici francesi del novecento, in cui la scrittura di Zanisi si integra nel tessuto degli archi: risente delle Illuminazioni (un progetto che il Quatuor IXI ha posto in essere con il clarinettista Yom e lo scenografo Matthieu Ferry) di Huby e soci, e di una caratterizzazione camerale che è costantemente alla ricerca di una rinnovata forma di moderno illuminismo: sono le azioni del pianista che tengono in piedi le costruzioni sonore, lavorate sull'espansione dell'armonia ed in barba a qualsiasi velleità avanguardistica. Perciò pullula di sensazioni (in alcuni momenti persino uno spirito medievale), e lascia uno spazio immenso agli inserimenti dei musicisti: questo è il motivo per cui si possono apprezzare fasi musicali particolarmente riuscite negli assoli di Mirabassi e dei quattro suonatori d'arco, capaci oltre che di condurre le trame anche di spezzarle con pause e pizzicati.
Blend pages è operazione camerale che ha tutte le carte in regola per il corretto posizionamento timbrico ed armonico di un ensemble: ha una densità di fondo di base, sulla quale si innestano interventi sopraffini; nelle parole di Zanisi "...I realized that I would feel freer to orchestrate my musical ideas if I started to switch roles within the ensemble. Hence, I chose to put together a "unique" quartet that could express itself above and beyond the score...".
Tra i principali pregi del batterista Francesco Cusa c'è quello di vivere la musica al pari di una lettura impegnata: certamente tra il suo jazz e il racconto letterario (dall'artificio linguistico alla simbologia) risiede un collegamento invisibile, identificato da propria visuale; il fatto di essere anche uno scrittore nobilita gli argomenti musicali, così come è successo con Black Power, un lavoro che Cusa desiderava fare da tempo, ossia unire gli sforzi di uno dei suoi usuali quartetti (The Assassins, con Zanuttini alla tromba, Stermieri alle tastiere e Benvenuti al sax tenore) con quelli di un quartetto d'archi. Tale circostanza si è materializzata con la pubblicazione di Black Power, cd in cui Cusa rielabora musica con l'intento del giocatore di poker, diviso tra il rischio e l'avarizia. Il poker sveglia in me ricordi di ragazzino indelebili: invitato a giocare per la prima volta ne compresi in poco tempo le insidie, molto simili a quelle della vita; ed è il motivo per cui si fa presto ad evitare! La musica, però, quando ben fatta, può essere in grado di segnalare situazioni impossibili da ricevere nell'ascolto, e il Black Power di Cusa usa il free jazz e gli archi per stendere delle sensazioni affini agli argomenti: memore degli esperimenti dell'Ornette Coleman di Forms and sounds, dello string quartet of the chamber symphony of Philadelphia o, ancor meglio, della sua organizzazione armolodica in Dedication to poets and writers, Cusa e i suoi collaboratori sintonizzano le loro improvvisazioni nel giusto contesto ritmico ed immaginativo di un racconto simile ad una scala in cui entro ciascun gradino c'è un universo di umori e vicende. Nel caso di Black Power le figure (re, regina, pali delle carte) reclamano una loro sopravvivenza e non c'è nulla nella musica che non tenda alla coerenza, anche a costo di sconfinare: è jazz circolare, con molte imperfezioni volute sulla tonalità, qualche tecnica estensiva ed un riposizionamento sugli archi (il Florence Art Quartet con Daniele Iannacone e Lorenzo Borneo ai violini, Agostino Mattioni alla viola e Cristiano Sacchi al violoncello), che agisce da giusto contrappeso, grazie anche all'esperienza del compositore/arrangiatore Duccio Bertini, specializzato in arrangiamenti per bands e grandi organici strumentali, vera arma in più per la musica, il quale accanto ad un apporto elargito alle dinamiche evolutive della composizione di Cusa, inietta per conto suo anche austerità sotto forma di interludio o di elegia.
c) Senza dubbio la conduction di Butch Morris resterà nella storia del jazz e della musica improvvisata come uno degli snodi formativi più riconosciuti dai musicisti, soprattutto in Italia dove Morris ha lasciato un segno indelebile. Conduction sta per "..vocabolario di segni ideografici e gesti usati per modificare o costruire in tempo reale arrangiamenti o composizioni musicali. Ogni segno e gesto trasmette informazioni generative per l'interpretazione, fornendo la possibilità di alterare o dettare istantaneamente armonia, melodia, ritmo, articolazione, fraseggio o forma.." (AAJ Italia, da A me gli occhi!, gennaio 2013).
Nella mia analisi prendo soprattutto in considerazione una sorta di dorsale geografica, principalmente rivolta agli insegnamenti del musicista americano, dorsale che va dalla Toscana all'Emilia, con propaggini nel Veneto: si tratta sempre di laboratori sperimentali di musica, che accolgono al loro interno musicisti riuniti e diretti con le lezioni impartite da Morris.
Diviso tra Siena e Bologna, il giovane sassofonista Tobia Bondesan dirige i BlueRing Improvisers, la BlueRing Orchestra e la Fonterossa Open Orchestra: questi collettivi hanno un raggio d'azione ampio, così come descritto da Bondesan nelle sue pubblicazioni musicali e, per quanto concerne l'attività del BlueRing Improvisers, c'è anche la possibilità di ascoltare un loro cd, pubblicato da Rudi Records nel 2016: "...BlueRing-Improvisers è un collettivo aperto: tutti coloro che vogliono unirsi ai nostri incontri possono farlo in modo sereno e gratuito, basta presentarsi la sera dell'evento con il proprio strumento. Il lavoro di BlueRing si concentra sull'improvvisazione totale: gli incontri consistono nel far suonare in modo casuale (su sorteggio) musicisti anche dalla diversa formazione stilistica alla ricerca di un linguaggio comune, un atto musicale compiuto. A BlueRing è legata un'orchestra stabile, la BlueRing Orchestra. E' una formazione allargata, dall'organico più o meno variabile che lavora sull'improvvisazione, sulla conduction e su alcuni metodi di direzione e scrittura/lettura della partitura non convenzionali, che spesso coinvolgono nel processo creativo il musicista in prima persona. Chiunque può farne parte, a patto di partecipare ai laboratori (gratuiti) che si tengono prima degli incontri..." (Bondesan, note su youtube).
L'attività dell'orchestra è molto stimolante, soprattutto sul modo con cui viene trattato il contenuto delle parti improvvisate: una distribuzione di idee che pesca anche da certi abbinamenti mutuati dalla composizione classica, tipo quelli di Kessler con Saul Williams, dove l'orchestra riceve apporto da cantanti rap o poetry speakers: qui si tratta naturalmente di registrazioni dei proclami che costituiscono quegli stili, ma sono materiale da unire ad altri elementi vivi, come il battito di mani corale, la ricerca di sincronismi casuali, le risposte al caos, gli accrescimenti in potenza bandistica (vedi qui un'esibizione al Mercato Sonato di Bologna, nel febbraio del 2017).
A Parma, il contrabbassista Roberto Bonati ha aperto una finestra ampia sulla conduction, nell'ambito delle sue importanti attività didattiche e musicali: la Chironomic Orchestra. In veste di perfetto conduttore, Bonati ricorda che già nel canto gregoriano veniva individuata l'abilità di far comprendere l'ascesa e la caduta delle melodie attraverso la gestualità delle mani, la cosiddetta chironomia; d'altra parte egli mutua anche elementi di direzione presi dal soundpainting di Walter Thompson, allievo di Braxton e creatore di un linguaggio multidisciplinare ed universale di segni, utile per la danza, la musica o per i gruppi teatrali.
Parmafrontiere ha pubblicato recentemente un dvd dal titolo Il suono improvviso, che contiene una chironomia improvvisata per il Parma Jazz Frontiere Festival del 2015 al Teatro Regio: si tratta di una performance di un'ora, con 45 elementi che suonano senza spartito, tutti con gli occhi e lo sguardo rivolto verso i segni di Bonati. La scelta di un dvd non deve essere stata casuale, perché l'obiettivo della musica è anche quello di farsi guardare nei suoi modi di produzione: c'è, in sostanza, un collegamento tra occhio ed orecchio che va molto oltre lo spirito didattico; vuole dimostrare che si può fare ottima musica se essa è veicolata con procedimenti validi. Nella corresponsione dei segnali Bonati si interpone nello stesso modo con cui un compositore tratta i materiali di partenza: conosce le timbriche, verifica le combinazioni, fissa tessiture e ritmiche desiderate. La sua tavolozza creativa è di fronte a lui, con la differenza però che, rispetto al lavoro a tavolino del compositore, Bonati sperimenta il tutto in tempo reale, non si pone il problema della buon riuscita e non conoscerà mai nel dettaglio quanto può ricevere dai suoi musicisti.
Il dvd sembra distinguere quattro parti dell'esibizione: nel Il suono improvviso, i primi 17 minuti introducono un giro di suoni bucolici, con Luppi che dispiega una sontuosa melodia jazz, alla cui interruzione si sussegue un "treno" ritmico impostato da Bonati, ottenuto selezionando gli strumenti al comando, una creazione esteticamente speciale. La seconda parte è invece aliena nel suo predisporsi: chitarre elettriche che si smorzano, bassi torbidi, violini striduli, una voce flebile, una tromba davisiana nel mezzo ed un generale tono estatico sono gli elementi caratterizzanti che provengono dagli improvvisatori; tutta l'orchestra si impegna in quello che sortisce l'effetto di un drone, ad un certo punto interrotto da un'incredibile selezione di Bonati, una situazione ritmica gestita con precisione e seduzione: il jazz ad un certo punto risorge intatto e si intrufola in una dimensione raffinata da club. La terza parte si apre invece con espressioni chitarristiche ed appoggi ritmici degni di un Zappa, per poi stemperarsi in un accordo violinistico austero e maledettamente solitario, con gli strumenti che seguono la rotta: pare di trovarsi in una nube particolarmente attenta alla colorazione dello sfondo sonoro, un aspetto indirettamente fornito dall'organizzazione, che dà corpo anche al ritorno della sostanza jazz, attuata tramite il suo rappresentante più celebrato (il sassofono). Bonati trova una sistemazione ritmica corale accattivante subito nella quarta parte (tracce di minimalismo casuale?), dove il gesto resta sempre centrato e accondiscendente: Bonati lascia spazio ad un sax che si evolve rough e sormonta un'orchestra in felice salita. C'è spazio anche per un breve bis (una breve continuazione!), lanciato in una narrazione fatata, una costruzione conciliata con sax e tromba in modalità coltraniane.
Nella mia disamina ho fatto qualche riferimento ad altri artisti o modalità del suonare, in verità Il suono improvviso è una dimostrazione lampante di come questa musica non abbia padroni: ha una sua autonomia, un suo sviluppo creativo che fa pensare a quanta bellezza può venir fuori da una pratica direttiva non preordinata: in Il suono improvviso, d'incanto, appare un mondo sonico articolato, capace di assorbire il vero significato delle emozioni in musica.
Parmafrontiere ha pubblicato recentemente un dvd dal titolo Il suono improvviso, che contiene una chironomia improvvisata per il Parma Jazz Frontiere Festival del 2015 al Teatro Regio: si tratta di una performance di un'ora, con 45 elementi che suonano senza spartito, tutti con gli occhi e lo sguardo rivolto verso i segni di Bonati. La scelta di un dvd non deve essere stata casuale, perché l'obiettivo della musica è anche quello di farsi guardare nei suoi modi di produzione: c'è, in sostanza, un collegamento tra occhio ed orecchio che va molto oltre lo spirito didattico; vuole dimostrare che si può fare ottima musica se essa è veicolata con procedimenti validi. Nella corresponsione dei segnali Bonati si interpone nello stesso modo con cui un compositore tratta i materiali di partenza: conosce le timbriche, verifica le combinazioni, fissa tessiture e ritmiche desiderate. La sua tavolozza creativa è di fronte a lui, con la differenza però che, rispetto al lavoro a tavolino del compositore, Bonati sperimenta il tutto in tempo reale, non si pone il problema della buon riuscita e non conoscerà mai nel dettaglio quanto può ricevere dai suoi musicisti.
Il dvd sembra distinguere quattro parti dell'esibizione: nel Il suono improvviso, i primi 17 minuti introducono un giro di suoni bucolici, con Luppi che dispiega una sontuosa melodia jazz, alla cui interruzione si sussegue un "treno" ritmico impostato da Bonati, ottenuto selezionando gli strumenti al comando, una creazione esteticamente speciale. La seconda parte è invece aliena nel suo predisporsi: chitarre elettriche che si smorzano, bassi torbidi, violini striduli, una voce flebile, una tromba davisiana nel mezzo ed un generale tono estatico sono gli elementi caratterizzanti che provengono dagli improvvisatori; tutta l'orchestra si impegna in quello che sortisce l'effetto di un drone, ad un certo punto interrotto da un'incredibile selezione di Bonati, una situazione ritmica gestita con precisione e seduzione: il jazz ad un certo punto risorge intatto e si intrufola in una dimensione raffinata da club. La terza parte si apre invece con espressioni chitarristiche ed appoggi ritmici degni di un Zappa, per poi stemperarsi in un accordo violinistico austero e maledettamente solitario, con gli strumenti che seguono la rotta: pare di trovarsi in una nube particolarmente attenta alla colorazione dello sfondo sonoro, un aspetto indirettamente fornito dall'organizzazione, che dà corpo anche al ritorno della sostanza jazz, attuata tramite il suo rappresentante più celebrato (il sassofono). Bonati trova una sistemazione ritmica corale accattivante subito nella quarta parte (tracce di minimalismo casuale?), dove il gesto resta sempre centrato e accondiscendente: Bonati lascia spazio ad un sax che si evolve rough e sormonta un'orchestra in felice salita. C'è spazio anche per un breve bis (una breve continuazione!), lanciato in una narrazione fatata, una costruzione conciliata con sax e tromba in modalità coltraniane.
Nella mia disamina ho fatto qualche riferimento ad altri artisti o modalità del suonare, in verità Il suono improvviso è una dimostrazione lampante di come questa musica non abbia padroni: ha una sua autonomia, un suo sviluppo creativo che fa pensare a quanta bellezza può venir fuori da una pratica direttiva non preordinata: in Il suono improvviso, d'incanto, appare un mondo sonico articolato, capace di assorbire il vero significato delle emozioni in musica.
Nell'ambito dello svolgimento musicale del Il suono improvviso si percepiscono dei protagonismi sub-primari, che sono anche espressione dell'approfondimento dei musicisti in questione sul tema della conduction: al sassofonista Riccardo Luppi, al chitarrista Luca Perciballi, al percussionista Roberto Dani viene accordato uno spazio particolare. Perciballi e Dani, in specie, hanno contemporaneamente sviluppato le proprie conduction in altri organici: il modenese è stato un diretto collaboratore di Morris, ed ha creato la Fragile Orchestra, sottoponendo a revisione Steve Reich, inserendo arrangiamenti di elettronica, video proiezioni pittoriche (grazie all'artista Mattia Scappini) e un movimento direttivo corporeo pronunciato; il vicentino, invece, ha condotto un laboratorio di musica improvvisata e sperimentale (il LIMS), che fonde la teoria di Morris con le sue splendide traiettorie di percussionista, tutto impostato sul suono, la gravità corporea e il movimento astratto in armonia con una differente filosofia dell'improvvisare. Se avete la pazienza di andare a sfogliare nel mio sito, troverete ampi dettagli sul loro lavoro.
Un'altro polo improvvisativo dove rintracciare Morris è anche quello ferrarese, attraverso la Tower Jazz Composers Orchestra, collettivo formato da Alfonso Santimone e Piero Bittolo Bon, come conseguenza di un laboratorio didattico incentrato su nuovi arrangiamenti e versioni di pezzi tratto dal repertorio jazzistico, così come su brani originali. I due bravissimi musicisti sposano una location fantastica per il jazz (il Torrione S.Giovanni, avamposto dell'antica cinta muraria della città, completamente rinnovato in stile jazz club) ed un'accresciuta vitalità dell'ambiente organizzativo jazzistico ferrarese che, a parer mio, è riuscito ad attrarre il meglio del jazz internazionale (soprattutto quello statunitense) nelle ultime edizioni del festival jazz di Ferrara, circostanza che tradizionalmente si svolge nel club presso la Torre. Le formule compositive impiegate da Santimone e Bittolo Bon si espandono anche oltre la conduction alla Morris (che resta comunque prevalente), e si caratterizzano per l'equilibrio tra dinamiche sonore e complessità delle forme ritmiche e melodiche; qualche video delle esibizioni della Tower Jazz Composers Orchestra è rinvenibile dalla rete (vedi qui), ma sarebbe forse opportuna adesso la testimonianza di una registrazione discografica ufficiale.
Come si può ben immaginare, dunque, esistono anche forme miste di conduzione: una propaggine meridionale conclude la mia breve carrellata sulla conduzioni; segnalo in particolare un cd che raccoglie musica suonata durante il festival R.E.C., svoltosi a Conversano, in cui una pletora di ottimi musicisti pugliesi hanno suonato sotto la direzione a turno di Gianni Lenoci, Elio Martusciello e Daniele Ledda, dopo aver frequentato uno workshop. Vi invito all'ascolto di questo lavoro (lo puoi ascoltare qui), perché i risultati raggiunti giustificano l'interesse del polo barese (tradizionalmente reattivo alle forme aggregative) verso un impianto stabile di orchestra improvvisativa, condotta con tutte le tecniche moderne di conduzione.
d) La musica di Lindsay Cooper, oboista, fagottista ed attivista inglese dell'era Wyatt, paga ancora oggi uno strano debito di complessità. Se si torna alla sua discografia (solo otto albums, ma una serie notevole di collaborazioni) si nota un'artista che non aveva nulla da invidiare ai più blasonati musicisti inglesi dell'epoca: mentre il suo oboe era presente in molti capolavori di altri artisti (gli albums storici degli Henry Cow, Hergest Ridge di Oldfield, The Rotters' club degli Hatfield & the North, Hopes and fears degli Art Bears), nella propria dimensione la Cooper era una vera e propria compositrice, con un progetto ed una ideologia musicale finalizzata. Il riascolto di albums come Music for other occasions, di Oh Moscow, nonché dei due albums come News from Babel (in Letters home, Robert Wyatt appare direttamente al canto in cinque canzoni), fa pensare a quanta bella musica si è perduta nell'oblio di un tempo che non c'è più. Ferdinando Faraò era probabilmente pronto a ripescarla e, nel solco dei suoi ottimi progetti orchestrali con la Artchipel Orchestra, rivolti all'epopea del jazz e dei suoi dintorni nei settanta in Inghilterra, si è avvalso delle curatele di un musicista che era stato con la Cooper nei tempi d'oro: Chris Cutler.
In un'intervista fatta a Cutler da Beppe Colli nel 2014 su cloudsandclock, a proposito delle qualità musicali della Cooper, il celebre batterista degli Henry Cow disse queste parole: "...we were looking for new sonorities to enrich our timbral palette (we also considered harpists and trombonists). I knew Lindsay a little - I'd met her playing in Comus. So Fred and I - as I recall - went to see her play with Clive Bell in Ritual Theatre and it seemed immediately obvious that she'd be perfect: classically trained - so no trouble with all the complex writing - and a great improviser; an almost unheard of combination of talents in those days. Also, we needed someone who was better, more advanced, than we were, so that we'd have become better ourselves to keep up. That was Lindsay. The fact that she was also smart and tough was bonus we didn't know we were looking for, but it made the band what it was....".
In un'intervista fatta a Cutler da Beppe Colli nel 2014 su cloudsandclock, a proposito delle qualità musicali della Cooper, il celebre batterista degli Henry Cow disse queste parole: "...we were looking for new sonorities to enrich our timbral palette (we also considered harpists and trombonists). I knew Lindsay a little - I'd met her playing in Comus. So Fred and I - as I recall - went to see her play with Clive Bell in Ritual Theatre and it seemed immediately obvious that she'd be perfect: classically trained - so no trouble with all the complex writing - and a great improviser; an almost unheard of combination of talents in those days. Also, we needed someone who was better, more advanced, than we were, so that we'd have become better ourselves to keep up. That was Lindsay. The fact that she was also smart and tough was bonus we didn't know we were looking for, but it made the band what it was....".
Faraò celebra la Cooper comportandosi come un ricercatore biologico che ha compreso in pieno le qualità sistematiche di un'alga: dopo averle rilevate, le porta in laboratorio e le mette a fuoco tramite i microscopi; Faraò si muove su un sentiero di rilevamento delle caratteristiche musicali che:
1) porta con sé gli aggiustamenti del caso, ripristinando le dimensioni acustiche moderne di una musica ascoltata principalmente su vinili, prodotti con un'enfasi non ricercata per l'orchestra;
2) tiene comunque incorporato lo slancio ritmico, elemento essenziale per cucire melodie e fasi musicali, piazzando al cuore dell'impianto orchestrale, il riferimento scomposto della batteria attraverso Cutler;
3) estrapola il potenziale implicito della musica di Cooper, potenziando sezioni e parti della sua Artchipel Orchestra. Il compito di Faraò è di rigenerare i brani scelti e mantenere lo spirito della musica della Cooper, un mix di modulazioni, intricati passaggi solistici consci di un idealismo difficile da trovarsi in giro;
Prendete per esempio England descending, un pezzo che arriva da Oh Moscow, un album che seguiva gli eventi della guerra fredda, tramite il film della regista e scrittrice Sally Potter: Faraò la riprende benissimo, lasciando intatto il messaggio sub-lugubre, e costruisce una propria organizzazione di suono che si avvale di messe a fuoco dotate di personalità e conoscenza degli argomenti, come la vocalità di Naima Faraò e gli assoli preziosi di Popolla e Falascone; il sassofonista milanese resta decisamente in palla anche per il remake della splendida Anno Mirabilis, un brano di magnifica speranza poetica, che figurava nello splendido Work resumed on the tower dei News from Babel.
L'orchestra è dosata alla perfezione, uno spazio in "eco" di suoni che tiene dentro tutte le sezioni e gli anatemi canori, rilasciando in alcuni momenti una sensazione di potente slancio bandistico (qualcosa che mi porta auralmente alle bands di Minafra o agli scandinavi Angles 9): Ferdinando costruisce una sua composizione servendosi proprio dell'architettura donata all'Artchipel e delle parole della grande Emily Dickinson: scorrono assoli e combinazioni fiatistiche di pregio in To Lindsay. Con cognizione di causa, Faraò e i suoi collaboratori fissano la materia di Cooper con l'ottica dei jazzisti, ma le parole dell'artista inglese restano validissime per i percorsi odierni di qualunque tipo: "...what choices now guide us apart from fears?..."
La Bud Powell Orchestra, collettivo di giovani improvvisatori orbitante a Maglie, è un'espansione delle idee di Francesco Negro e Gabriele di Franco. Lo scorso anno, di Franco ha composto ed arrangiato un nuovo cd prodotto in seno all'associazione culturale che organizza l'orchestra a Maglie, dal titolo Dedalo. Punto di partenza della musica di di Franco è certamente la figura del trombettista, arrangiatore e bandleader americano Thad Jones: gli indizi per un implicito omaggio a Jones partono da A child is born, una composizione di Jones che faceva parte di Consummation, un album del 1970 per Blue Note R, che si inserisce nel solco dei lavori della grande orchestra di Thad Jones e Mel Lewis. La Thad Jones/Mel Lewis Orchestra fu una delle orchestre più importanti degli anni settanta, che resisteva alle lusinghe che il rock stava elargendo anche al sistema del jazz: un'alternativa di tipo tradizionale alla Mahavishnu Orchestra e alla fusion completa, corredata da un gran solismo dei suoi partecipanti, abili nel riempire di sorprese le loro esibizioni. L'organizzazione orchestrale di Jones era poi improntata ad un eccesso di presenza fiatistica, soprattutto trombe (il suo strumento), tromboni e sassofoni.
Sulla base di queste premesse si incanala il lavoro della Bud Powell Orchestra e di Gabriele di Franco, 6 brani originali (oltre a A child is born) che mettono in risalto proprio l'estro degli assoli (tra essi alcuni sono di altissimo livello, come succede con Alulli in Ninja, Giancarlo del Vitto in Aspetta) e l'orchestrazione sbilanciata sulle specificità di trombe e sassofoni. Un'ulteriore spinta melodica viene dal contributo vocale e dalla chitarra elettrica, che è anche lo strumento principale suonato da di Franco. Forse non è neanche tutto, perché l'impressione è che l'inquadramento dell'orchestra talvolta scivoli verso una fusione sofisticata, un percorso logico che fa pensare persino all'Inghilterra dei settanta e agli Azimuth di Taylor.
e) qui troverete i miei commenti sui due cds dell'aggregazione Tai No Orchestra, baluardo e nuova espressione di un tipo di improvvisazione che non ha radici idiomatiche.